No no, avete letto male, non è Mosaicoon, è Mosaic. Sì Mosaic, forse non tutti la ricordano, di certo la ricordano coloro che hanno iniziato a giochicchiare con internet ai suoi albori, quelli che hanno visto il passaggio dalla rete pre-web a quella post-web. Mosaic è stato il primo browser, lo avevamo tutti, o meglio lo usavano tutti i pionieri. Poi Mosaic è scomparso, sparito, è stato soppiantato da altri, da Microsoft che a un certo punto si è accorta di internet e ha fatto il suo che si chiama Explorer, oggi credo si chiami Edge, e sul quale per un po’ ha investito moltissimo, perfino in eventi di lancio con giornalisti di tutto il mondo, ma erano i gloriosi anni a cavallo del millennio, anni ricchissimi soprattutto per l’industria dell’informatica. E poi ne sono arrivati altri di browser, fino ai giorni nostri quando a dividersi la torta del mercato sono Chrome, Firefox e Safari. Insomma il glorioso Mosaic poteva essere il leader di mercato, era il primo, era già noto e diffuso, aveva dietro un team fortissimo, il mercato si stava espandendo (certo c’è stata poi la bolla delle startup, ma la diffusione di internet non si è arrestata). Eppure Mosaic ha presto finito la sua corsa e oggi è un pezzo dell’archeologia di internet. Succede che anche le più luminose promesse finiscano a gambe all’aria, succede che le aziende possano trovarsi in acque difficili e arrivare per fino alla chiusura. Succede, è normale, quasi non dovrebbe essere nemmeno una notizia se non per la valenza di apprendimento che essa può avere, per il fatto che da episodi di questa natura si possano trarre lezioni e informazioni importanti. Ma è normale che accada, succede, sta nella dinamica delle cose, anzi va detto che il fatto che non tutte le aziende abbiano successo è pure sintomo di un certo livello di salute di un ecosistema che preferisce chiudere ciò che non va bene piuttosto che accanirsi in salvataggi improbabili. Cercare le motivazioni che hanno portato Mosaicoon, e anche Mosaic all’epoca, alla chiusura ha quindi senso se è fatto in modo costruttivo e non distruttivo. Non ha senso se fatto per sparare a zero, senza magari avere tutte le informazioni, o per trasformare una non-notizia in un titolo acchiappa clic, un po’ come accade con la notizia del ministro che annuncia di volere vaccinare il figlio, quando sarebbe la normalità, e dell’assessore che non si fa corrompere, quando sarebbe la normalità. Ci mancherebbe, caspita. Non è però nemmeno il caso di dare ulteriore cassa di risonanza a espertoni improvvisati che un giorno postano le frasi ispirazionali di qualche tech-guru su come il fallimento fa parte dell’imprenditorialità e su come fallire è sintomo di innovazione, e il giorno dopo si gonfiano il petto giudicando senza freni e dati l’altrui operato. Vale però la pena imparare anche questa di lezione ricordando un proverbio che recita: “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Ecco impariamo ad ascoltare la foresta e a isolare i rumori cacofonici di fondo. La storia recente è piena di fallimenti illustri o di aziende che sembravano destinate al successo più luminoso e che sono rimaste confinate a nicchie di mercato: vi dicono qualcosa i nomi di Kodak che non ha visto arrivare la fotografia digitale, di Nokia che non ha visto arrivare lo smartphone, di Blockbuster che non ha visto arrivare la distribuzione in streaming dei contenuti, di Toys’R’Us che non ha visto arrivare l’ecommerce? E tornando al mondo di internet e del digitale: chi si ricorda di Yahoo, che era leader del suo mercato, ancora esiste ma è divenuto marginale, di Altavista o di Lycos che non hanno visto arrivare Google, di MySpace che non ha visto arrivare Facebook? E non si parla solo di startup che erano ai primi passi della loro avventura imprenditoriale, ma di aziende già globali, con uffici in tutto il mondo, centinaia se non migliaia di dipendenti, alcune storiche e radicate nell’immaginario collettivo oltre che nel mercato globale, nonostante ciò hanno commesso a un certo punto qualche errore, o, più probabilmente, una serie di errori e sono arrivate alla fine della loro vita. Le storie di queste aziende insegnano che sono finite male non necessariamente perché gli imprenditori sono stati sprovveduti, o perché gli investitori erano distratti, o perché non hanno capito il mercato, più probabilmente sono arrivate alla chiusura per una combinazione di fattori tra cui questi: scelte strategiche sbagliate, mancanza di fondi, mercato diventato più difficile a causa di nuovi e agguerriti concorrenti. Fa bene analizzare queste storie perché insegnano molto, così come ci sono stati fallimenti clamorosi in passato, continueranno ad essercene perché è parte del gioco, perché è elemento delle dinamiche della imprenditorialità, e oggi quando le aziende sono sempre di più e hanno cicli di evoluzione più veloce, il fenomeno non può che crescere e, come detto, non è un elemento da considerare in modo esclusivamente negativo. Non è stato scegliere la Sicilia per fare startup il motivo che ha portato Mosaicoon alla chiusura, in Sicilia ci sono tantissime altre startup che stanno crescendo e nascendo: Biospremi, Orange Fiber, Ocore per citarne alcune. Non è stato lo storytelling a portare Moisaicoon alla chiusura perché chi scrive ha visto in azione il team della società di Palermo realizzando qualche anno fa un evento molto interessante a Mondello e aiutando startup di Paesi dell’area mediterranea nel quadro di un programma dell’Unione Europea. Lo hanno fatto con concretezza, preparazione e guardando con attenzione alla creazione di qualcosa capace di portare vero valore e non solo di avere risonanza mediatica. Così come con concretezza si sono preparati quando sono venuti a ScaleIT. Ho parlato con Ugo Parodi Giusino, fondatore di Mosaicoon, il quale mi ha espresso il suo desiderio di sedimentare in queste ore tutto l’accaduto e di iniziare a costruire più a freddo un racconto di quanto successo. Un’analisi dei fatti che possa essere costruttiva e capace di diventare un nuovo punto di partenza sia per lui e per chi ha lavorato nella sua società, sia per tutti coloro che continuano con convinzione a fare startup, un racconto che sarà condiviso con chi legge nelle prossime settimane. Tornando a Mosaic vale la pena ricordare che chi lo creò fu Marc Andreessen che oggi è uno dei più lungimiranti, apprezzati e di maggior successo venture capitalist californiani. Ecco, il mio personale augurio a Ugo e a tutti i membri del suo team è quello di ripartire dalla fine di Mosaicoon per costruire nuove cose forti della esperienza fatta, delle cose imparate, delle persone conosciute, degli errori commessi e tornare a portare il loro valore a questo mondo della creazione d’imprese innovative che è tanto stimolante quando imprevedibile, tanto eccitante quanto insidioso.
@emilabirascid
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